Editoriale

“Non lasciare nessuno indietro” è la promessa fondamentale e innovatrice dell’Agenda 2030 e dei suoi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs). Rappresenta “l’impegno inequivocabile di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite per sradicare la povertà in tutte le sue forme, porre fine alla discriminazione e all’esclusione e ridurre le disuguaglianze e le vulnerabilità che lasciano le persone indietro”.

Su questo postulato dell’ONU c’è un ampio consenso e siamo in molti a lavorare in questa direzione. Anche se vediamo che gli sforzi finora non sono sufficienti e che sradicare la povertà “in tutte le sue forme” sembra utopistico, ogni singola azione che riesce a cambiare almeno una vita ha un valore infinito.

Tuttavia, questa logica dell’impatto che ognuno può avere sul proprio metro quadro è meno popolare di quanto si pensi. Gli indicatori di impatto devono spesso essere quantitativamente elevati e coinvolgere un gran numero di beneficiari prima che, secondo molti esperti, si possa parlare di cambiamento. 

È invece essenziale che nessuna azione, per quanto piccola, sia mai sottovalutata, perché non lasciare nessuno indietro è già un valore.

In America Latina abbiamo assistito a decenni di disuguaglianze molto marcate all’interno dei singoli stati e tra i paesi, e le conseguenze della pandemia le hanno accentuate ancora di più. Per questo motivo, e senza perdersi d’animo in tutti i nostri sforzi, dobbiamo riconoscere che al ritmo a cui stiamo andando, è difficile pensare che la povertà sarà sradicata entro il 2030.

Così, secondo me, c’è un fattore che è più importante del non lasciare nessuno indietro, ed è: non lasciare nessuno da solo.

Uguale, se non peggiore della povertà, è la solitudine; non avere nessuno con cui condividere il dolore, i sacrifici e i bisogni. Si può vivere in condizioni di povertà, ma quanto è importante per una persona sapere che può contare su qualcuno; a volte può essere semplicemente sedersi in silenzio ad ascoltare un pianto, o stare fianco a fianco a cucinare e condividere quel poco che c’è da mangiare. Il valore della famiglia, dell’amicizia e di una comunità premurosa è incalcolabile.

Allo stesso modo, le istituzioni devono rendersi conto che offrire un piatto di cibo, curare una persona e darle una medicina o un addestramento al lavoro sono necessari, ma sono solo l’inizio. Il vero cambiamento culturale verso uno sviluppo integrale della persona è un processo e richiede tempo, e per questo sono necessari programmi di accompagnamento: proposte che, anche in piena emergenza assistenziale, abbiano metodi innovativi che evitino di sostituirsi alla responsabilità della persona e di generare rapporti di dipendenza disumani.

“Se devo scegliere tra la tristezza e la solitudine, scelgo la tristezza”, diceva William Faulkner; ecco perché oso dire che il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di non lasciare nessuno solo e indietro.